Maastricht e dintorni (Wynne Godley)
Molte persone in tutta
Europa si sono improvvisamente rese conto che non conoscono quasi
nulla del Trattato di Maastricht, ma allo stesso tempo avvertono che
esso potrebbe fare la differenza nelle loro vite. La loro legittima
ansia ha indotto Jacques Delors a rilasciare una dichiarazione
secondo la quale l'opinione della gente comune dovrebbe in futuro
essere presa maggiormente in considerazione. Avrebbe potuto pensarci
prima.
Anche se ho sostenuto il
passaggio verso l'integrazione politica in Europa, credo che le
proposte di Maastricht, così come sono, presentino gravi carenze, e
che la loro discussione pubblica sia stata particolarmente povera.
Con un rifiuto danese, un quasi-rifiuto in Francia, e l'esistenza
stessa dello SME messa in discussione dai saccheggi da parte dei
mercati valutari, è un buon momento per fare il punto.
L'idea centrale alla base
del trattato di Maastricht è che i paesi della Comunità Europea
debbano muoversi verso l'unione economica e monetaria, con una moneta
unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma cosa succede al
resto della politica economica? Dato che il trattato non propone
nuove istituzioni a parte la banca centrale europea, i suoi
sostenitori probabilmente ritengono non sia necessario null'altro. Ma
ciò potrebbe essere vero soltanto se le economie moderne fossero dei
sistemi capaci di autocorreggersi, senza la necessità di una
gestione complessiva.
Sono portato a concludere
che tale punto di vista - che le economie siano organismi capaci di
autoregolamentarsi e non abbiano mai in nessun caso necessità di una
gestione complessiva - ha effettivamente determinano il modo in cui è
stato sviluppato il trattato di Maastricht. Si tratta di una versione
rozza ed estrema della visione che da qualche tempo costituisce la
saggezza convenzionale in Europa (anche se non quella degli Stati
Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi non sono in grado,
e quindi non dovrebbe cercare, di raggiungere uno qualsiasi dei
tradizionali obiettivi della politica economica, come la crescita o
la piena occupazione. Tutto ciò che può legittimamente essere
fatto, secondo questa visione, è controllare l'offerta di moneta ed
il pareggio di bilancio. E' stato un gruppo in gran parte composto da
banchieri (il Comitato Delors) a giungere alla conclusione che una
banca centrale indipendente è l'unica istituzione sovranazionale
necessaria per gestire un'Europa integrata sovranazionale.
Ma c'è molto di più.
Bisogna evidenziare da subito che la creazione di una moneta unica
nella CEE porterebbe sicuramente alla fine alla sovranità delle
nazioni che la compongono ed al loro margine di azione indipendente
sulle questioni principali. Come l'onorevole Tim Congdon ha
sostenuto in modo molto convincente, il potere di emettere la
propria moneta, tramite la propria banca centrale, è la cosa
principale che definisce l'indipendenza nazionale. Se un paese
rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente
locale o di una colonia. Le autorità locali e le regioni,
ovviamente, non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di
finanziare il disavanzo attraverso la creazione di denaro, mentre gli
altri metodi per ottenere finanziamento sono soggetti alla
regolamentazione centrale. Né possono modificare i tassi di
interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di
nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, le loro scelte di
natura politica si limitano a questioni di enfasi relativamente
minori: un po' più istruzione qui, un po' meno infrastrutture lì.
Penso che quando Jacques Delors pone l'accento sul principio di
'sussidiarietà', ci sta in realtà semplicemente dicendo che saremo
autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni
relativamente poco importanti di quanto si possa aver precedentemente
supposto. Forse ci permetterà di avere i cetrioli con i riccioli
dopotutto. Un affarone!
Permettetemi di esprimere
una visione differente. Penso che il governo centrale di uno Stato
sovrano debba impegnarsi continuamente nel determinare il livello
ottimale complessivo dei servizi pubblici, l'onere fiscale
complessivo adeguato, la corretta allocazione della spesa totale tra
i diversi settori e la giusta distribuzione della tassazione. Esso
deve anche determinare la misura in cui ogni divario tra spesa e
imposte debba essere finanziata attraverso la banca centrale e quanto
mediante ricorso al credito ed a quali condizioni. Il modo in cui i
governi decidono tutti questi (e alcuni altri) problemi, e la qualità
della leadership che possono implementare, in interazione con le
decisioni degli individui, delle corporazioni e degli operatori
stranieri, determiteranno i tassi di interesse, il tasso di cambio,
il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di
disoccupazione. Tutto ciò influenzerà profondamente la
distribuzione del reddito e della ricchezza non solo tra individui ma
tra intere regioni, assistendo, si spera, quelle colpite da
cambiamenti strutturali.
Quasi nulla di semplice,
si può dire circa l'uso di questi strumenti, con tutte le loro
interdipendenze, per promuovere il benessere di una nazione e
proteggerlo dagli urti di vario genere a cui sarà inevitabilmente
sottoposto. Ha solo un significato limitato, per esempio, dire che il
bilancio debba sempre essere in pareggio quando un bilancio in
pareggio con un livello di spesa e tassazione pari al 40% del PIL
avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di
un bilancio in pareggio al 10%. Per immaginare la complessità e
l'importanza delle decisioni macroeconomiche di un governo, ci si
dovrebbe chiedere quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di
politica fiscale, monetaria e di cambio, per un paese in procinto di
produrre grandi quantità di petrolio, ad una quadruplicazione del
prezzo del petrolio. Sarebbe giusto non fare nulla? E non si dovrebbe
mai dimenticare che nei periodi di crisi molto grande, può anche
essere appropriato per un governo centrale contrastare lo Spirito
Santo di tutte le banche centrali e invocare la 'tassa da
inflazione', appropriandosi volutamente delle risorse attraverso la
riduzione, per mezzo dell'inflazione, del valore reale della moneta
di una nazione. Keynes, dopotutto, propose di pagare la guerra
proprio attraverso la tassa dell'inflazione.
Ricordo tutto questo
per suggerire, non che la sovranità non deve essere ceduta nella
nobile causa dell'integrazione europea, ma che se tutte queste
funzioni vengono abbandonate dai singoli governi devono semplicemente
essere assunte da qualche altra autorità. La lacuna incredibile
nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per
l'istituzione ed il modus operandi di una banca centrale
indipendente, non esiste un progetto qualunque di un soggetto
analogo, in termini comunitari, ad un governo centrale. Eppure ci
sarebbe semplicemente bisogno di un sistema di istituzioni che
soddisfino tutte quelle funzioni a livello comunitario che sono
attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri.
La contropartita per
la rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti
costituiscano una federazione a cui è affidata la loro sovranità.
Ed il sistema federale, o governo, comunque lo si voglia chiamare,
dovrebbe esercitare tutte quelle funzioni in relazione ai suoi membri
e al mondo esterno, che ho brevemente indicato sopra.
Consideriamo due esempi
importanti di ciò che un governo federale, responsabile di un
bilancio federale, dovrebbe fare.
I paesi europei
attraversano al momento una grave recessione. Per come stanno le
cose, in considerazione del fatto che anche le economie di Stati
Uniti e Giappone vacillano, non è chiaro quando arriverà una
ripresa significativa. Le implicazioni politiche di tutto ciò stanno
diventando spaventose. Tuttavia, l'interdipendenza delle economie
europee è già così grande che nessun singolo paese, con
l'eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire
politiche espansive per conto proprio, perché ogni paese che cerchi
questa soluzione isolatamente incontrerebbe presto dei vincoli dovuti
alla bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede ad alta
voce una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né
un quadro concordato di pensiero che porti a questo risultato
ovviamente desiderabile. Si deve francamente riconoscere che se
la depressione dovesse davvero peggiorare seriamente, ad esempio, se
il tasso di disoccupazione tornasse definitivamente al 20-25%
caratteristico degli anni Trenta, i singoli paesi, prima o poi,
eserciterebbero il loro diritto sovrano a dichiarare l'intero
movimento verso l'integrazione un disastro e tornerebbero ai
controlli sui cambi ed al protezionismo, un'economia d'assedio se
volete. Ciò equivarrebbe ad un ritorno al periodo tra le due guerre.
Se ci fosse un'unione
economica e monetaria, in cui il potere di agire in modo indipendente
fosse stato effettivamente abolito, una reflazione 'coordinata' della
quale si ha così urgente bisogno ora potrebbe essere indotta solo da
un governo federale europeo. Senza una tale istituzione, l'Unione
Monetaria Europea avrebbe impedito un'azione efficace da parte dei
singoli paesi senza predisporre nulla al suo posto.
Un altro ruolo importante
che ogni governo centrale deve svolgere è quello di mettere una rete
di sicurezza a garanzia del sostentamento delle regioni che sono in
difficoltà per ragioni strutturali, a causa del declino di alcune
industrie, per esempio, o a causa di qualche cambiamento
economico-demografico negativo. Attualmente questo accade
naturalmente, senza che nessuno se ne accorga, perché gli standard
comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità, l'istruzione,
le pensioni ed i sussidi di disoccupazione) ed il livello (si spera
progressivo) della tassazione valgono entrambi in generale per tutta
la popolazione. Di conseguenza, se una regione soffre un insolito
grado di declino strutturale, il sistema fiscale genera
automaticamente i trasferimenti netti in favore di esso.
Estremizzando, una regione che non producesse nulla non morirebbe di
fame perché beneficierebbe delle pensioni, indennità di
disoccupazione e del reddito dei dipendenti pubblici.
Cosa succede se un
intero paese, una potenziale 'regione' in una comunità pienamente
integrata, subisce una battuta d'arresto strutturale? Finché si
tratta di un Stato sovrano, può svalutare la propria moneta. Può
quindi mirare con successo alla piena occupazione a patto che la sua
gente accetti il taglio necessario dei redditi reali. Con un'unione
economica e monetaria, questa possibilità è ovviamente esclusa, e
le conseguenze sono davvero gravi, a meno che esista un bilancio
federale che svolga un ruolo redistributivo. Come è stato
chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall che è stata
pubblicata nel 1977, ci deve essere un quid pro quo per aver
rinunciato alla possibilità di una svalutazione, sotto forma di
redistribuzione fiscale. Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir
Douglas Hague) hanno seriamente suggerito che l'Unione Monetaria
Europea, abolendo il problema della bilancia dei pagamenti nella sua
forma attuale, avrebbe davvero abolito il problema, dove esistesse,
di una persistente incapacità di competere con successo sui mercati
mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in
un importante articolo sull'Economist (13 giugno), questo argomento è
pericolosamente sbagliato. Se un paese o una regione non ha il
potere di svalutare, e se non è il beneficiario di un sistema di
perequazione fiscale, allora non c'è nulla che possa fermarlo da un
processo di declino cumulativo e terminale che conduce, alla fine,
all'emigrazione come unica alternativa alla povertà o fame. Sono
solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di
fronte alla perdita della sovranità, desiderino scendere del tutto
dal treno dell'Unione Monetaria. Apprezzo anche la posizione di
coloro che cercano l'integrazione sotto la giurisdizione di una sorta
di Costituzione federale con un bilancio federale molto più grande
di quello dell'attuale bilancio comunitario. Quello che trovo
assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che sono
propensi ad un'unione economica e monetaria senza la creazione di
nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che
inorridiscono alle parole 'federale' o 'federalismo '. Questa è la
posizione adottata oggi dal Governo e dalla maggior parte di coloro
che prendono parte alla discussione pubblica.
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