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martedì 17 gennaio 2012

Aspetti politici della piena occupazione (parte prima)

Traduzione di un articolo di Michal Kalecki scritto nel 1943 dal titolo "Political Aspects of Full Employment. Spero a breve la seconda parte.


Aspetti politici della piena occupazione (Michal Kalecki)

Un'ampia maggioranza degli economisti è ora dell'opinione che, anche in un sistema capitalista, la piena occupazione possa essere raggiunta per mezzo di un programma di spesa pubblica, a patto che sia disponibile un'adeguata capacità produttiva capace di impiegare completamente l'intera forza lavoro ed a patto che si possa accedere ad un'adeguata provvista di risorse prime dall'estero in cambio di esportazioni.
Se il governo assicura gli investimenti pubblici (ad es. la costruzione di scuole, ospedali e autostrade) o sovvenziona il consumo di massa (attraverso aiuti alle famiglie, riduzione delle tasse indirette, o sussidi volti a calmierare i prezzi dei beni essenziali),se, oltrettutto, queste spese sono finanziate da prestiti e non dalla tassazione (che potrebbe disincentivare gli investimenti ed i consumi privati), la domanda effettiva di beni e servizi può essere aumentata fino a raggiungere un livello di piena occupazione. Questa spesa pubblica aumenta l'occupazione, si noti, non solo in maniera diretta ma anche indirettamente, in quanto il reddito prodotto attraverso di essa finisce per incrementare successivamente nuovi investimenti e consumi privati.

Potrebbe venire chiesto dove il pubblico trovi i soldi da prestare al governo senza ridurre i propri investimenti o consumi. Per capire meglio questo processo è meglio, io penso, immaginare per un momento che il governo paghi i propri fornitori con titoli di stato. I fornitori, in genere, non tratterranno queste obbligazioni ma le faranno circolare comprando altri beni e servizi, e così fino a quando queste obbligazioni cadranno nelle mani di individui o imprese che le conserveranno come attività portatrici di un rendimento. In ogni momento l'aumento totale dei titoli pubblici in possesso (temporaneo o non) di individui o imprese sarà uguale ai beni e servizi venduti al governo. Quindi quello che l'economia presta al governo sono beni e servizi la cui produzione è "finanziata" dai titoli di stato. Nella realtà il governo paga per questi beni e servizi non tramite obbligazioni ma in contanti, ma emette simultaneamente delle obbligazioni e quindi drena il contante; e questo coincide con il processo immaginario descritto qui sopra.
Cosa succede, però, se il pubblico non è disponibile ad assorbire tutto l'aumento di titoli pubblici? Li offrirà indietro alle banche per ottenere in cambio del contante (banconote o depositi). Se le banche li accettano, il tasso di interesse rimarrà stabile. Altrimenti, il prezzo dei titoli diminuirà, il che significa un aumento nel tasso di interesse, e questo incoraggerà il pubblico a detenere più titoli in rapporto ai depositi. Ne consegue che il tasso di interesse dipende dalla politica delle banche, ed in particolare da quella della Banca Centrale. Se questa politica mira a mantenere il tasso di interesse ad un certo livello questo può essere raggiunto facilmente, qualsiasi sia l'ammontare del debito pubblico. Questa era ed è la posizione durante la guerra attuale. Nonostante gli enormi disavanzi di bilancio, il tasso di interesse non ha dato segni di crescita dall'inizio del 1940.
Si può obiettare che la spesa pubblica finanziata dal debito causerà inflazione. A questo può essere risposto che la domanda effettiva creata dal governo agisce come qualsiasi altro incremento della domanda. Se esiste un'ampia offerta di lavoro, infrastrutture e materie prime estere, l'aumento della domanda provocherà un aumento della produzione. Ma se il livello di piena occupazione delle risorse è raggiunto e la domanda effettiva continua a crescere, i prezzi saliranno finchè l'equilibrio tra domanda ed offerta verrà raggiunto. (In un periodo di sovrautilizzo delle risorse come quello attuale in economia di guerra, un aumento dei prezzi infazionistico è stato evitato solamente riducendo la domanda effettiva di beni e servizi per mezzo del razionamento e della tassazione diretta.) Ne consegue che se l'intervento del governo teso al raggiungimento della piena occupazione si interrompe quando questo livello viene raggiunto, non c'è alcun bisogno di temere l'inflazione.#1
Quella esposta qui sopra è una descrizione breve ed incompleta della dottrina economica della piena occupazione. Ma, io penso, è sufficiente far conoscere al lettore l'essenza della dottrina al fine di permettergli di seguire la discussione successiva riguardante i problemi politici che il raggiungimento della piena occupazione implica.
Dobbiamo dapprima constatare che nonostante molti economisti siano oramai d'accordo sul fatto che la piena occupazione può essere raggiunta per mezzo della spesa pubblica, questo non è stato il caso del recente passato. Tra gli oppositori di questa dottrina vi erano (e ancora vi sono) cosidetti "esperti economici" di primo piano strettamente legati alle banche ed alle imprese. Questa è la prova che esistono ambienti politici che si oppongono alla dottrina della piena occupazione nonostante le critiche da loro avanzate siano a livello economico. Questo non significa che coloro i quali le sostengono non vi credano, nonostante siano poveri di contenuti. Ma l'ostinata ignoranza è normalmente una manifestazione di ragioni politiche alla base.
Ci sono, comunque, altre indicazione più dirette che si tratta di un argomento politico di primo piano. Durante la grande depressione degli anni '30, la grande industria si oppose decisamente agli esperimenti per aumentare l'occupazione attraverso la spesa pubblica in tutti i paesi. ad eccezione della Germania nazista. Questo fu evidente negli Stati Uniti (con l'opposizione al New Deal), in Francia (l'esperimento Blum) ed anche in Germania prima di Hitler. Questo atteggiamento è difficile da spiegare. E' chiaro che una produzione ed un'occupazione maggiori non beneficiano solamente i lavoratori, ma anche gli imprenditori, perchè aumentano i profitti. E la politica di piena occupazione presentata precedentemente non riduce i profitti perchè non implica nessuna tassazione aggiuntiva. Gli imprenditori in crisi aspettano la ripresa con ansia; perchè non accettano di buon grado l'espansione "sintetica" che il governo può garantire? Questa è la domanda difficile ed affascinante che vogliamo affrontare in questo articolo.
Le ragioni dell'opposizione da parte dei "leaders industriali" alle politiche di spesa volte al raggiungimento della piena occupazione possono essere suddivise in tre categorie: (a) l'avversione per l'interferenza del governo nei problemi riguardanti l'occupazione; (b) l'avversione per la destinazione della spesa pubblica (investimenti pubblici e sussidi ai consumi); (c) l'avversione per i cambiamenti sociali e politici derivanti dal mantenimento della piena occupazione. Cercheremo di esaminare ognuna di queste tre categorie di opposizione all'espansione della spesa pubblica in dettaglio.
Iniziamo dalla resistenza da parte dei "capitani d'industria" ad accettare l'intervento pubblico in materia di occupazione. Ogni ampiamento dell'attività dello Stato è vista con sospetto da parte delle imprese, ma la creazione di lavoro per mezzo della spesa pubblica ha un aspetto speciale che rende l'opposizione particolarmente intensa. In un regime di laissez-faire il livello di occupazione dipende in buona misura dalle aspettative. Se queste si deteriorano, gli investimenti privati diminuiscono, il che porta ad una riduzione della produzione e dell'occupazione (sia direttamente che attraverso l'effetto secondario della diminuzione del reddito sui consumi e sugli investimenti). Questo permette ai capitalisti un efficace controllo indiretto sulla politica del governo: tutto quello che potrebbe turbare le aspettative deve essere accuratamente evitato perchè causerebbe una crisi economica. Ma una volta che il governo capisce come aumentare l'occupazione attraverso la propria spesa, questo potente strumento di controllo perde la sua efficacia. Per cui i disavanzi di bilancio necessari per rendere possibile l'intervento del governo devono essere visti come pericolosi. La funzione sociale della dottrina della "finanza solida" è rendere il livello di occupazione dipendente dallo "stato delle aspettative".
L'avversione degli imprenditori nei confronti della spesa pubblica aumenta ancor più quando essi prendono in considerazione gli oggetti verso i quali il denaro verrebbe speso: investimenti pubblici e sussidi ai consumatori.
I principi economici dell'intervento del governo prescrivono che l'investimento pubblico debba essere confinato ad oggetti che non sono nella sfera di competenza delle imprese private (ad es. ospedali, scuole, autostrade, ecc.). Altrimenti la profittabilità degli investimenti privati verrebbe minacciata e l'effetto positivo dell'investimento pubblico sull'occupazione ridotto dall'effetto negativo della diminuzione degli investimenti privati. Questa concezione si addice molto bene all'imprenditore. Ma la portata dell'investimento pubblico di questo tipo è molto ridotta ed esiste il pericolo che il governo, perseguendo questa politica, possa eventualmente essere tentato a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici in modo tale da conquistare nuovi ambiti nei quali poter effettuare investimenti.#2
Uno potrebbe quindi presumere che gli imprenditori ed i loro consulenti siano più a favore degli aiuti al consumo di massa (tramite detrazioni familiari, sussidi volti a calmierare il prezzo dei beni di base, ecc.) che agli investimenti pubblici; in quanto sostenendo i consumi il governo non sarebbe coinvolto in nessun tipo di "intrapresa". In pratica, invece, non è così. Anzi, sostenere i consumi di massa è contrastato da questi "esperti" in maniera molto più violenta che gli investimenti pubblici. Si desume che sia in ballo un principio "morale" di importanza fondamentale. I fondamenti dell'etica capitalista richiedono che "Tu devi guadagnarti il pane sudando", a meno che tu non sia abbastanza facoltoso.
Abbiamo considerato le ragioni politiche dell'opposizione alla politica di creazione di lavoro tramite la spesa pubblica. Ma anche nel caso questa opposizione venga superata, come potrebbe accadere sotto la spinta delle masse, il mantenimento della piena occupazione causerebbe cambiamenti politici e sociali che darebbero un nuovo impulso all'opposizione da parte degli imprenditori. Anzi, in un regime di piena occupazione, "il licenziamento" smetterebbe di giocare il suo ruolo di misura disciplinare. La posizione sociale del padrone sarebbe indebolita e l'autostima e la coscienza di classe della classe lavoratrice crescerebbero. Gli scioperi per l'aumento dei salari ed il miglioramento delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche. E' vero che i profitti sarebbero più alti in un regime di piena occupazione che in un regime di laissez-faire; ed anche l'aumento dei salari derivante dall'aumento del potere contrattuale dei lavoratori è meno probabile che riduca i profitti piuttosto che incrementi i prezzi, e quindi abbia conseguenze negative solo sugli interessi dei rentier. Ma la "disciplina industriale" e la "stabilità politica" sono più apprezzate dagli imprenditori che i profitti. Il loro istinto di classe gli suggerisce che una piena occupazione duratura non è sana dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un "normale" sistema capitalista.

#1 Un altro problema di natura più tecnica è quello del debito pubblico. Se la piena occupazione è mantenuta dal governo tramite una spesa finanziata dai prestiti, il debito pubblico aumenterà continuamente. Questo non implica, comunque, alcun disturbo alla produzione ed all'occupazione, se l'interesse sul debito è finanziato da una tassa sui capitali. Il reddito corrente di alcuni capitalisti, dopo il pagamento della tassa sui capitali, sarebbe minore e di altri sarebbe maggiore che nel caso il debito pubblico non fosse aumentato, ma il loro reddito aggregato rimarrebbe invariato ed i loro consumi aggregati non dovrebbero cambiare in maniera significativa. Inoltre, una tassa sui capitali non influisce sull'incentivo ad investire in capitale fisso perchè colpisce ogni tipo di ricchezza. Sia che venga detenuta sotto forma di contanti o di titoli pubblici o investita in immobili o imprese, la tassa sui capitali da pagare è sempre la stessa e quindi il beneficio comparato è invariato. E se l'investimento è finanziato da un mutuo è chiaramente non intaccato dalla tassa sui capitali perchè non implica un aumento della ricchezza dell'imprenditore che investe. Quindi nè il consumo dei capitalisti nè gli investimenti risentono dell'aumento del debito pubblico se gli interessi su quest'ultimo sono finanziati da una tassa sui capitali.
#2 Si noti che gli investimenti in un industria nazionalizzata possono contribuire alla soluzione del problema della disoccupazione solo se vengono effettuati secondo principi differenti di quelli dell'impresa privata. Il governo deve accontentarsi di un rendimento netto inferiore che l'impresa privata, o deve deliberatamente dare una scadenza ai propri investimenti al fine di mitigare le crisi.

2 commenti:

  1. secondo me la teoria MMT sembra un capitalismo ragionato meglio, ma non penso che ci aiuti a risolvere i problemi della nostra società:

    -M0 vs M3 (in Italia) 138mld vs 1360mld
    -interessi che arriveranno presto a 100mld
    -debito estero sempre maggiore
    -ecc

    Quindi penso che se volessimo applicare la MMT (anche se forse ormai è datata) alla nostra società dovremmo (almeno) fare come dicono alcuni MMTers: eliminare i titoli di stato e stampare direttamente moneta (scelta peraltro meno inflattiva) (Scott Fullwiler)

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  2. pensa solamente che nel 2007 gli americani (households, government ecc) pagavano $4.5 trilioni di interessi su un PIL di $14 trilioni...non penso che questo tipo di economia possa andare molto lontano...

    fonte: bea.gov

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